Centro Virtuale Arte Nunzio Sciavarrello ringrazia l’autrice per averci concesso la pubblicazione della sua esperienza. Ci auguriamo che la diffusione di un argomento di così elevata importanza possa aver contribuito, nel nostro piccolo, a una maggiore sensibilizzazione e al massimo incoraggiamento per la rottura del mutismo, nocivo per chi ha la necessità di venir fuori da situazioni di violenza.
Stefi Pastori Gloss:
Tutto quello che so nasce dall’esperienza. È necessario conoscerla per capire cosa mi spinge a scegliere titolo e argomento di questo manuale di resilienza con nomi e recapiti di coloro che salvano le donne soggette a violenze.
Mi chiamo Stefania Pastori, ma tutti mi conoscono come GLOSS. GLOSS è l’acronimo di Gruppo di Lavoro e Osservatorio Sessismo e Stalking. E’ anche un modo efficace, non avvilente, di descrivere una donna maltrattata. Una GLOSS risplende perché lucidata a suon di botte. Come infatti diceva sempre mia nonna: “ciò che non ti uccide, ti fortifica.” Inoltre, è bene suggerire rinascita e rimonta dell’autostima della donna maltrattata, spesso così bassa da impedirle una visione lucida della sua vita. Magari attraverso un velo di trucco, per far risaltare la femminilità depressa, per far risalire a galla la stima di sé, ormai calpestata. Da qui il riferimento al lip gloss.
Sono per 17 anni Art freelance in svariate Agenzie di Pubblicità di Milano. Per amore mi trasferisco vicino alle Alpi, nel torinese. Dato che in quella zona non ci sono sbocchi per la mia professione, devo re-inventarmi un lavoro, seguendo corsi di modellazione 3D, con stage gratuito presso un’azienda rinomata nel settore automotive, dove per la prima volta cozzo contro il fenomeno del glass cieling. Se a Milano, presso le Agenzie di Pubblicità quasi tutte di provenienza statunitense, essere donna era un plus, a Torino, settore della Produzione Industriale, no. Infatti, a stage terminato, l’azienda mi propone di partecipare a selezioni per un ruolo molto più di responsabilità che non la disegnazione tridimensionale, passando attraverso plurime prove in due lingue assieme ad altri 300 candidati, per la più parte uomini, pure ingegneri. Ebbene, la scampo fino all’ultimo colloquio, dove resto in competizione con un uomo, trentenne, ingegnere. Qui viene fatta un’offerta economica non commisurata al ruolo, in quanto rasenta il ridicolo. Per dignità rinuncio. Sì, in effetti, fui io a cedere il posto al giovane uomo.
Finita questa esperienza formativa, per un lungo periodo sto nell’azienda di colui che diverrà mio marito dopo sette anni di convivenza, cioè l’imprenditore. Tutti ritenevano costituissimo una coppia affiatata, sportiva, avventurosa, viaggiatrice, incline alla devozione l’uno per l’altra. Ci sposiamo dopo alcuni anni nella prospettiva di avere figli. Dopo alcuni problemi connessi con la difficoltà di restare incinta, e la prescritta serie di esami, come quello cosiddetto dei villi coriali, per evitare nascite “difficili” legate a patologie congenite, viene alla luce una bimba accolta con amore. Non avremmo saputo accettare una prole disabile.
È solare, bella, precoce, interattiva, ma al quinto mese di vita manifesta i primi sintomi di una malattia, rara, che impedisce lo sviluppo psicomotorio, non diagnosticabile con test pre-natali. Subito capii che la bimba era affetta da una patologia del sistema neurologico: una mia allieva e un ex fidanzato avevano sofferto di epilessia e, pur non essendo identici i sintomi, avevo ventilato questa ipotesi dove portai Sofia per la diagnosi. Esporre ai medici il mio sospetto fu un errore che ritardò il riconoscimento della malattia. Infatti mi diedero della visionaria. E il padre con loro.
Non convinta, perché la bimba presentava costante regressione, la portai anche in Pronto Soccorso ma, in assenza di crisi, la bimba appariva normale. Solo dopo due mesi la pediatra sostituta di quella di base fu in grado di riconoscere la patologia. Fummo inviate con urgenza nell’ospedale infantile per accertamenti. In quell’ospedale venne eseguito un banale esame: l’elettroencefalogramma. La diagnosi fu inequivocabile: sindrome di West, rara forma di epilessia che colpisce un bimbo ogni centocinquantamila, mentre la sindrome di Down ne colpisce uno ogni millecinquecento. Pregai i medici di spiegarmi tutto. Se non l’avessero fatto, una volta a casa, sarei andata su internet a fare una ricerca. Ma da sola, senza alcun supporto psicologico. Perciò preferivo che mi dicessero di persona a cosa saremmo andati incontro. Feci bene a restare perché mi prospettarono un quadro da tregenda.
Un terzo di questi bimbi reagisce abbastanza bene alle cure con una qualità di vita dai medici definita accettabile. Questo avrebbe significato per Sofia una vita sulla carrozzella, imbragata a causa della perdita di tono muscolare, incapace di parola. Il termine accettabile mi sembrò non appropriato.
Un altro terzo, pur sottoposto alle stesse cure, rimane allo stato vegetativo: intubato per respirare e per alimentarsi.
Un ultimo terzo dei bimbi colpiti da sindrome di West muore entro il primo anno di vita. I medici mi dissero: «Signora, viva ogni giorno come fosse l’ultimo.» In quel momento il mio cervello provò lo stesso dolore del mio ventre durante il parto, privato però dell’onnipotenza dell’ossitocina. Un abbattimento rasente l’annientamento fece sorgere in me, agnostica, la domanda: “Dio, perché tanta cattiveria su un esserino così piccolo?”
Dovetti restare accanto alla cucciola perché la terapia stessa era a rischio di morte. Piangevo ogni santo risveglio, accanto a lei. Tutte le notti all’1 e 10 mi svegliavo, vedevo incombere sul lettino della mia figliola una massa di nuvoloni neri in cui si agitavano le maschere deformi di demoni irati. Allora riversavo su di lei il mio corpo per proteggerla, pensando: “ANDATE VIA, ANDATE VIA.” Mi aggiravo per l’ospedale come una zombie, non parlando con altri genitori.
Scoprii un’altra bimba con la stessa sindrome: intubata da due anni, per accudirla giorno e notte sua mamma non poteva mai lasciare l’ospedale. Mesi addietro, il marito nord-africano le aveva abbandonate ai loro infelici destini. Non mi vergogno di ammettere ciò che pensai: “Se Sofia dovesse rimanere così, l’ammazzo con le mie stesse mani.” Per non fare pietismo, dico subito che dopo due giorni ripresentò un elettroencefalogramma nella norma. Nonostante le caratteristiche della malattia, che non ammette guarigioni, Sofia era guarita. Ci informarono che era l’unico caso conosciuto di guarigione in Italia e forse nel mondo. Il primario di neuropsichiatria infantile dell’ospedale Regina Margherita di Torino, prof. Capizzi, parlò senza mezzi termini di “miracolo.” Ecco perché ci tengo a sottolineare l’inequivocabilità dell’esame con cui fu diagnosticata la sindrome.
Nonostante la guarigione, per la piccola giunta ormai verso il primo anno di vita, restò un ritardo mentale e fisico da recuperare. Solitamente davanti a episodi così difficili e dolorosi, la coppia e le loro la famiglie o si serrano o si disfano. La nostra si distrusse.
Mio marito e i suoi rifiutarono l’handicap di Sofia, per cui invece dovrebbe essere seguita. Annientato dal dolore, colui che avrebbe dovuto sostenerci non ce la fece e cominciò a prendersela con me, in quanto nella sua ottica gli avevo partorito una figlia disabile. Questo avviene più spesso di quanto si creda. Vissi per alcuni mesi il mio inferno personale. In un modo mai visto negli anni precedenti in cui abbiamo vissuto insieme, in pochi giorni mio marito diventò violento, applicando in progressione geometrica tutte le forme di aggressione che con le ricerche realizzate negli anni successivi avrei imparato a riconoscere.
Psicologica: mi cacciò dal letto coniugale.
Economica: mi negò l’accesso al conto corrente e mi fece ritirare il bancomat.
Verbale: ingiurie personali, troia e puttana perché convinto che in ospedale, mentre accudivo la figlioletta a rischio di morte, l’avessi tradito.
Fisica: minacce di morte, anche con coltello alla mano.
Ero terrorizzata. Sofia in braccio, scappai dai Carabinieri a segnalare la minaccia col coltello, i quali mi consigliarono di dormire a casa di amici per quella notte. Il prode marito mi fece pervenire la richiesta di separazione che firmai per salvare la pelle a me e a mia figlia, visto l’incremento delle violenze. Fu un crescendo
che soltanto in seguito avrei conosciuto come da manuale: dal ricatto psicologico, a quello economico, fino alle minacce fisiche. Fino al pestaggio a sangue. Finanche al femminicidio. Seppi in seguito agli studi realizzati nel corso di otto anni, che è un copione che si ripete in tutti i casi di maltrattamenti. Dovetti rimboccarmi le maniche. Da una parte seguii mia figlia per portarla alla riabilitazione psicomotoria, dall’altra ho pensato a ricostruirmi. Una volta raggiunta Milano, ebbi l’intelligente intuizione di farmi assistere da un centro antiviolenza: CERCHI D’ACQUA. Ma questo solo in seguito. Difatti, dapprima Carabinieri e Servizi Sociali ci nascosero in un convento. Qui venni sostenuta da Suor Margherita De Blasio, autrice di una delle due prefazioni di CORPI RIBELLI. Trovai pace e serenità. Riflettei sulla mia situazione e su quella di Sofia. Non avevo né casa né lavoro, ma dovevo andare avanti. In queste condizioni si trovano molte donne vittime della violenza familiare. Ai convegni cui partecipo come relatrice a testimonianza contro questi odiosi crimini, mi si chiede come arrivai a ribellarmi e a sottrarmi alle violenze. La risposta sta nel termine resilienza.
All’epoca, ripetevo a me stessa: “non perdonerò mai mio marito”, ma con la psicologa del Centro Cerchi d’Acqua cercai di capire.
Concludemmo che:
1. era arrabbiato con me per la patologia di Sofia;
2. stava rivivendo quello che aveva vissuto all’età di tredici anni, quando sua madre quarantenne partorì prematuramente la sorella a seguito di un distacco placentare. Costei, che fu chiamata Daniela, subì gravi danni cerebrali. Il mio ex suocero se ne lavò le mani e se ne andò di casa. Per poi morire di cancro ai polmoni. Mia nonna diceva sempre: “il male torna indietro.” Non ebbi mai il coraggio di chiedere se il distacco placentare fosse dovuto alle loro liti furibonde. O peggio, ad un’aggressione fisica.
Ebbene, nonostante fossi stata pestata a sangue, continuavo a non voler credere a quello che mi stava accadendo. Con la formazione che ne seguì come reazione terapeutica, ho capito che le donne con queste stesse traversie, pensano le stesse cose. Tutto il tempo che sono stata in convento, nell’ala adibita all’accoglienza di donne maltrattate e dei loro figli, ho avuto modo di indagare, di conoscere, di intervistare, a partire dagli assistenti sociali. Mi confermarono che il passo successivo sarebbe stato il mio stesso omicidio.
Accettai, anche psicologicamente, la separazione e tornai a Milano, terra delle origini. Imparai solo successivamente che era la mossa più giusta, ma in quei momenti agii d’istinto. La mia famiglia mi aiutò pur non riuscendo a capacitarsi di quanto accaduto. Persino pensarono che mentissi, altra criticità che poi scoprii essere comune. La rabbia mi aiutò a concentrarmi sulla sopravvivenza: avviai un asilo nido in famiglia per poter seguire mia figlia e per mantenermi. Gli alimenti arrivavano infatti sempre in ritardo. Allo scopo di recuperarli legalmente, per i primi tre mesi mi rivolsi a un avvocato del Centro Cerchi d’Acqua che provvide ai precetti. Però, pur corrispondendomi la quota dovuta, l’ex non pagava mai le spese all’avvocato che, di
conseguenza, abbandonò la consulenza. Dato che ogni mese era un nuovo precetto, imparai a fare da me. Come diceva sempre mia nonna, “chi fa da sé fa per tre.”
In convento mi ero domandata come fare a ricambiare il bene ricevuto, mettendo a frutto i miei talenti acquisiti nel mondo della Pubblicità, della Comunicazione e del Cinema. Cominciai in modo semplice. Una volta a Milano, parallelamente all’attività dell’asilo nido, volli incontrare persone che avessero a che fare con le donne maltrattate. Grazie ad innumerevoli incontri, furono evidenziate le loro criticità, discussi i metodi necessari alla consapevolezza personale, così da poterle informare sulle tutele sociali. Cercammo anche di trovare stratagemmi efficaci per ovviare alla loro mancanza di mezzi e di conoscenze conseguenti alla coercitiva reclusione.
Come scritto prima, condussi autonomamente ricerche nella Mediateca RAI vicino a casa su programmi come STORIE MALEDETTE o AMORI CRIMINALI per documentarmi circa il linguaggio televisivo utilizzato per la narrazione di queste tematiche. Dopo la visione, ogni volta che tornavo a casa rimettevo anche l’anima. Ma tale trattamento d’urto e tanto lavoro di ricerca si concretizzarono in un progetto per la televisione, un’inviata speciale su STRISCIA LA NOTIZIA che parlasse dei maltrattamenti in famiglia, proponendo modelli positivi e resilienti. L’iniziativa partì da quel gruppo segreto di Facebook, GLOSS, DONNE CHE SCINTILLANO perché lucidate a suon di botte. Piacque molto questo motto alle donne maltrattate, perché vi trovavano motivo di accrescimento della loro così bassa autostima.
Vi partecipava un centinaio di donne da tutta Italia, alcune stavano uscendo da storie di maltrattamenti, altre non avevano ancora avuto la forza di farlo e traevano spunti, ispirazioni e incoraggiamenti da coloro invece ce l’avevano fatta prima. Qui sputavano i loro rospi e si attivavano, con la speranza (poi rivelatasi vana, come ho scritto nella introduzione) di diventare un movimento di opinione e di pressione politica.
Vi partecipava inoltre una ventina di donne specialiste: avvocate di genere, psicologhe, operatrici dei centri antiviolenza, donne impegnate in politica, altre associate ai BACA, acronimo di Bikers Against Child Abuse. Infatti quando in famiglia una mamma è maltrattata dal partner, spesso anche i bimbi ne sono coinvolti, fosse solo per violenze assistite. Gloss diventò un osservatorio sociale: ci rendemmo conto di quanto fossero connessi invalidità, tutela dei figli, maltrattamenti in famiglia. Conoscemmo molte donne che, pur non essendo finite sulle pagine dei giornali ammazzate dai loro ex, rimasero invalide a causa delle violenze subite. Altre ne subivano
quotidianamente perché “colpevoli” di aver dato un figlio invalido al loro uomo. Altre ancora erano riuscite a separarsi dal congiunto violento, pagando uno scotto altissimo in termini di salute psichica, restando invalide. Perciò il nostro motto è: “Via dalla violenza domestica prima che sia troppo tardi.”
Nel 2010 ottenni il contatto con STRISCIA LA NOTIZIA. Mi fu concessa una troupe per creare servizi ad hoc sulle donne maltrattate con i loro standard qualitativi. Feci tanto girato, persino alcune interviste a Gloss che ce l’avevano fatta e che firmarono le liberatorie. Però all’ultimo momento si ricredettero e ritirarono l’autorizzazione per la messa in onda, nonostante le cautele prese perché non fossero riconosciute. Non se ne fece più nulla. Per la seconda volta mi rimbalzava il famigerato spirito di corpo tra donne, altrimenti detto “sorellanza.” Non conoscevo ancora quel fenomeno definito in psicologia Sindrome della Matrigna e lo imparai a mie spese.
Ricordo che tra noi Gloss scoppiò una lite furibonda sull’opportunità di usare o meno un medium come STRISCIA LA NOTIZIA, così sessista. Da parte mia, sostenni la tesi che sarebbe stato un efficace strumento di comunicazione. Perché STRISCIA è seguito da tutte le fasce d’età e di reddito, nonché di istruzione. E poi volevo scardinare l’immagine della donna debole e oggetto che viene veicolata dalla pubblicità e dai programmi della TV sessista. Il fenomeno della violenza contro le donne è diventato ormai un’emergenza che coinvolge tutti gli strati
sociali ed è trasversale. Se è vero che la comunicazione efficace passa attraverso la provocazione, STRISCIA LA NOTIZIA, madre di tutte le veline, mi era sembrata quella giusta.
Inoltre, un programma con tale penetrazione avrebbe veicolato con efficienza le informazioni di cui hanno bisogno le donne maltrattate. Individuate le famigerate criticità, sarebbe stato facile metterle in evidenza con le interviste a STRISCIA, perché: queste donne sono di norma isolate dal loro contesto familiare, ma
guardano tanta TV, hanno figli e non vanno a lavorare, non conoscono strumenti efficaci che le possano aiutare a uscire dal clima violento, non hanno accesso ai centri antiviolenza, non hanno disponibilità economiche e, per questo motivo, non hanno possibilità di essere consigliate da avvocati, non hanno elementi della famiglia che le aiutino e le supportino con i figli né tanto meno possono permettersi di pagare baby-sitter, se denunciano, spesso non sono credute dalle Forze dell’Ordine, o addirittura danno credito alle voci che i Servizi Sociali sottraggano loro i figli, il picchiatore le denigra, per poi tornare a corteggiarle e far loro regali in un andirivieni infernale e perverso, definito clinicamente “luna di miele”, hanno paura del picchiatore, si auto-colpevolizzano e stanno sottomesse.
Io stessa sono stata così. Per un periodo limitato nel tempo. Mi sono ribellata, ho camminato sulle mie gambe, ho avuto successo, e vorrei insegnare alle altre donne che subiscono come fare. Purtroppo, il progetto non decollò, anche perché venni travolta dalla rottura di aneurisma cerebrale, con il conseguente mese di coma. Ma questa è un’altra storia. Venne a trovarmi in policlinico Sorella Margherita che, a dispetto di ciò che dicevano a mia madre i medici circa le mie condizioni di salute (“Sua figlia non supererà la notte!”), mentre ero in coma, disse: “Tu sopravvivrai perché hai una missione nella vita, la salvezza delle donne maltrattate.”
NETNOGRAFIA
Il video del gruppo segreto su Facebook:
http://www.youtube.com/watch?v=lO-zoBXXep0 (ultimo accesso: 13 giugno
2016)
CHI SONO E COSA FACCIO
Non sono una guru. Non sono quella che sa tutto, e chi dice di esserlo, alimenta i miei sospetti. L’unica verità in tasca è quella dei dati ISTAT del 2006:
http://www3.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070221_00/testointegrale.pdf
una donna su tre ha subito violenza sessuale almeno una volta nella propria vita. Prima di dare informazioni su come sarà strutturato il mio intervento, ci tengo a dire che condivideremo esperienze, anche forti, partendo dalla mia. E cercheremo di stabilire quali siano le condizioni che un bel giorno ci fanno decidere di non subire più violenze dal partner. Quale cambiamento interiore occorra promuovere prima di lasciarsi alle spalle una vita di sofferenza conosciuta, al fine di scoprire un paio d’ali per volare alto.
Il 25 novembre 2013 è uscito in tutta Italia il mio libro
CORPI RIBELLI – resilienza tra maltrattamenti e stalking
Essendo stata fino a quel momento art director, abbandonai un incarico altamente specialistico nel settore pubblicitario per dedicarmi alla salvezza di donne maltrattate.
Il manuale contiene gli incoraggiamenti degli operatori, in prima persona e i loro recapiti affinché le donne possano contattarli. L’esperienza del cambiare è doverosa e possibile, per uscire dalle violenze domestiche prima che sia troppo tardi. L’esistenza di figli minori non è una scusa per rimandare, ma l’opportunità di impedirne il plagio smettendo di farli assistere alle violenze. Nel manuale sono anche auspicate e indicate le modalità preventive, partendo dalla formazione nelle scuole.
La rinuncia volontaria ad un lavoro prestigioso e ben remunerato, il ripudio dell’ipnosi sentimentalistica fondata sul ricatto della paura del rimanere sole, l’incrollabile fiducia nella forza motrice dei propri valori, una lucida follia spregiudicatamente visionaria, sono necessarie per tornare a scrivere in prima persona le leggi che governano la nostra vita e il nostro benessere.
Il XXI secolo ha in serbo per le donne qualcosa di grande: non facciamoci cogliere di sorpresa.
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